Nelle capanne di Cayapò si racconta un’antica leggenda...
.. molti anni fa si abbatterono nella zona carestia e siccità senza precedenti. Per trovare un po’ d’acqua, bisognava fare un lunghissimo viaggio fino al grande fiume. Ma chi poteva fare un simile viaggio? Nessuno ne aveva la forza perché il cibo era estremamente scarso e tutti erano ridotti come scheletri. E, anche se qualcuno fosse riuscito a raggiungerlo, come riportare abbastanza acqua per dissetare tutta la tribù? Il calore implacabile del sole faceva morire tutto. Morivano i pesci boccheggiando nella fanghiglia bollente che restava sul fondo dei laghi, morivano gli uccelli appollaiati sui rami spogli degli alberi, morivano gli animali della foresta in riva ai ruscelli.
Il villaggio, che prima risuonava chiassoso e vitale, era diventato simile a un grande cimitero. La sete aveva già ucciso tanti bambini, giovani e adulti. Si pensò a varie soluzioni per trovare l’acqua, ma nemmeno lo stregone con le sue magie riuscì a risolvere la situazione.
Il vecchio cacico (dal termine spagnolo “cacique” che significa capo), con gli occhi pieni di tristezza e il cuore spezzato dal dolore, vedeva di giorno in giorno assottigliarsi la tribù.
E così prese una decisione. Un giorno raccolse le ultime forze, radunò i superstiti, fece portare e distribuire il poco cibo che restava e tenne un discorso
–E’ bene che tutti mangino per riprendere le forze. Io non mangerò, forse Tupà vuole un sacrificio. Io non mangerò più, resterò in preghiera fino al sopraggiungere della morte. Sono vecchio e non ho più alcun diritto, voi invece dovete mangiare e vivere perché la tribù possa continuare-.
Nessuno ebbe il coraggio di contestare le parole del cacico. Egli si distese e chiuse gli occhi, in attesa della morte che non tardò a venire. Ma ecco che quando i superstiti si accinsero a rendergli gli onori funebri, il cielo improvvisamente si oscurò: lampi e tuoni solcarono il cielo e cominciò una pioggia scrosciante che durò fino all’ora del tramonto.
I funerali furono fatti all’imbrunire, appena cessata la pioggia. Questa ricominciò appena tutti furono rientrati nelle capanne e continuò per tutta la notte e per tutto il giorno seguente. La terra tornò a vivere, spuntarono erbe, foglie e fiori.
Cessata la pioggia, i superstiti si recarono alla tomba del cacico per l’ultimo saluto e videro con meraviglia che vi era spuntata una pianticella sconosciuta. La pianta cresceva a vista d’occhio e produceva grosse pannocchie rivestite di foglie verdi con lunghi baffi biondicci. Era il granturco.
Lo stregone sentenziò –E’ il dono del cacico. Raccogliete i semi e seminateli-. Nacquero altre piante, crebbero altre pannocchie e il villaggio ebbe da mangiare.
Con il grano ancora tenero pestato nel mortaio si otteneva una poltiglia che, cotta, dava ottime focacce; con il grano secco invece si poteva preparare una polenta molto nutriente.
Il giorno della morte del cacico venne dichiarato festivo. Il suo sacrificio e il dono che aveva fatto alla tribù vennero ricordati con canti e danze.