Quando pensiamo alla cucina degli antichi romani, siamo portati a immaginare qualcosa di iperbolico, piatti di inarrivabile raffinatezza, ottenuti con gli ingredienti più strani e pregiati. E’ una visione sostanzialmente errata, in buona parte dovuta alle stesse fonti antiche che, più volte, si compiacciono di descriverci fastosi banchetti, dove si servono talloni di cammello, uno dei piatti preferiti dell’imperatore Elogabalo (218-222 d.C.), pavoni completi dello loro variopinte piume, oppure maiali – i famosi “maiali di Troia” – farciti di decine di altri animali.
Ma si deve tener conto che queste ricercatezze erano di frequente ricordate dagli scrittori proprio perché costituivano, ai loro stessi occhi, degli eccessi talmente lontani dal quotidiano, da meritare un ricordo nella storia ufficiale. Nella realtà, la cucina di tutti i giorni era assai più povera e, se vogliamo, appetibile, annoverando fra i piatti più comuni pietanze che ancor oggi sopravvivono sulle nostre tavole, come le salsicce o la polenta. D'altronde, in una società modesta, come quella dei primi secoli della Repubblica (VI-III sec. a.C.), anche l'arte culinaria rispecchiava un mondo contadino e pastorale, poco propenso all'elaborazione di complessi e succulenti manicaretti. Ad esempio, il pane, non lievitato, era fatto in casa semplicemente mescolando acqua e farina, fatto cuocere sotto la cenere del focolare.
Una descrizione di quale fosse la semplicità di questa cucina agreste è offerta da un poemetto del I sec. a.C., noto come Moretum ed erroneamente attribuito a Virgilio, nel quel è minutamente descritta, con un'attenzione per le cose umili tipica della poesia di gusto alessandrino, la colazione di un contadino. Questi, svegliatosi nelle prime ore del giorno, macina il grano, prepara la sua semplice pagnotta e la mette nel sacco da portare sui campi, insieme a una fetta di formaggio all'aglio (detto, appunto, moretum), che completa il misero pasto. Nella dieta abituale di un lavoratore, come il contadino del Moretum, non poteva, comunque, mancare l'altro pilastro della cucina povera: la polenta. Si trattava, però, di una polenta sensibilmente diversa dalla nostra, ottenuta dalla spelta, un grano duro che era macinato completo della sua buccia. Ne risultava un impasto scuro, vicino alla semola, ricco di crusca e, spesso, degli stessi frammenti di pietra residui della triturazione. Naturalmente esistevano polente più raffinate, ottenute con grani vagliati, attentamente tritati e, per finire, sbiancati con prodotti solforosi (Plinio, Naturalis Historia 18, 112). Ad accompagnare la polenta erano ritenute adatte soprattutto le salsicce di maiale, un binomio che Marziale (Epigrammi 4, 46; 8, 13 ecc.) giudica il migliore di ogni altro raffinato manicaretto.
Su una tavola romana, anche dei ceti più poveri, difficilmente mancava una bella insalata. Plinio il Vecchio, con uno spirito pragmatico tutto romano, elogia l’insalata, poiché consente di risparmiare il fuoco ed è sempre pronta (Nat. Hist 19, 58). E’ ancora il celebre enciclopedista, che evidentemente doveva essere un cultore di questo semplice piatto, a informarci anche sugli abbinamenti più gustosi: la lattuga, da noi comunemente detta “romana”, doveva costituire la base, anche se, per arrivare al suo sapore, piuttosto sciapo, era buona regola aggiungere del crescione e un po’ di ruchetta, i cui presunti effetti afrodisiaci l’avevano resa un’erba pressoché onnipresente sulle tavole (Plinio, Nat. Hist 154, 155). Fra le verdure, un posto d’onore spettava alle rape che, secondo Marziale, erano il cibo preferito da Romolo, anche dopo che il primo re di Roma era salito a far parte del consesso degli dei (Epigrammi 13, 16), ma diffusissimi e, anzi ritenuti da Catone (De Agricoltura 157, 1-2) una sorta di panacea contro ogni male, erano anche i cavoli, che si dovevano, di preferenza, lessare in acqua e sale e servire con una goccia d’olio.
Re incontrastato delle carni era senz’altro il maiale. Su una tavola romana avremmo cercato inutilmente un taglio di bue al sangue. Addirittura, per lungo tempo, sino all’avanzato III sec. a.C., uccidere un bue era considerato reato gravissimo, passibile della condanna all’esilio o, in caso di reiterazione, a morte. Queste misure preventive non erano giustificate da tabù religiosi, ma, ancora una volta, da considerazioni pratiche, poiché i buoi erano la principale forza motrice dell’epoca e il loro impiego per trainare carri e aratri era “strategico” per l’economia.
Così la cucina romana nacque e si sviluppò in funzione del maiale, un animale, a giudizio di Plinio (Nat. His. 8, 209), superiore a ogni altro, perché, mentre la carne di bue o di pecora ha un gusto soltanto, quella del maiale ha cinquanta sapori diversi. L’affermazione non deve essere giudicata eccessiva, poiché i Romani conoscevano certamente oltre cinquanta modi diversi di preparare il maiale, sfruttandone ogni minima parte. I rognoni, le testine, il prosciutto, le cotiche, il lardo (che Orazio, in una sua satira, definisce perfetto con le lenticchie), i fegatelli avvolti dalla rete costituivano tutti prodotti di granissimo consumo sulle tavole di ogni classe sociale.
Insalate, polente, prosciutto, salsicce, insieme a galletti arrosto, rape, cavoli e asparagi selvatici, erano, dunque, le pietanze di tutti i giorni e incarnavano lo spirito di una cucina semplice e saporita. Per distinguersi dal quotidiano e stupire i commensali, manifestando ricchezza e buon gusto, si venne poi elaborando, a partire dal I sec. a.C., un'arte culinaria estremamente più elaborata, destinata al solo uso e consumo delle èlite del tempo. Sfruttando le spezie più esotiche e costose, come lo zafferano, il nardo, lo zenzero, le carni più pregiate, come i pavoni, i cinghiali, i tordi, e, soprattutto, i pesci più rari, come le murene, le triglie o le ostriche, nacque una cucina barocca nelle presentazioni, quanto, di fatto, immangiabile. Marziale non esita ad augurarsi che il pregiatissimo cinghiale di Eotlia se lo mangi il padrone di casa, mentre agli invitati sia servito un semplice, ma gustosissimo, porcello arrosto (Epigrammi 3, 23). Anche Orazio, nella seconda satira (2, 2, 23-28) avanza il dubbio che, alla fin fine, le differenze fra un pavone e una gallina si riducano alle piume...
In una cena di rango, tutto era comunque concepito per stupire l'invitato e fargli comprendere, senza mezzi termini, quale fosse la statura sociale del suo ospite. Il pane, ovviamente, non era quello di tutti i giorni, ma pregiato, adatto, di volta in volta, alla pietanza che accompagnava. Plinio ricorda un pane per ostriche, delicatissimo (Nat. Hist. 18, 2), panini all'olio e al burro (18, 105), pane di fior di farina (15, 3, 86), addirittura un pane lassativo. Si calcola che in una buona panetteria di Roma si potesse scegliere fra oltre venti varietà di pane, una scelta che però impallidisce di fronte agli oltre sessanta tipi disponibili in Grecia.
Una cena "raffinata", nella descrizione della quale il colto scrittore latino Petronio Arbitro, di età neroniana (I sec. d.C.), si prende gioco dei gusti rozzi e smodati di un ricco liberto romano, è quella del celebre passo del Satyricon dov'è narrato il banchetto offerto appunto dal parvenu Trimalcione a un gruppo di esterrefatti amici e clienti. Ogni piatto è concepito come una scultura volta più a ingannare i sensi che a solleticarli. All'inizio, com'era regola, sono portate delle uova sode servite su un vassoio con una gallina di legno al centro. Improvvisamente però, uno dei servi, recitando una parte stabilita in partenza, afferma a sorpresa che le uova gli sembrano andate a male e, apertane una, rivela al suo interno un pulcino immerso in una salsa rossa. In realtà si tratta di un beccafico nascosto in un contenitore di pasta che somiglia a un uovo. A un certo punto viene portato un grande vassoio coperto, intorno al quale sono disposte alcune misere vivande allusive ai segni zodiacali; così due minuscole triglie rappresentano il segno dei Pesci, un gamberetto lo Scorpione, un pezzetto di manzo il Toro... Trimalcione, dopo essersi goduto le facce deluse dei commensali, preoccupate di dover dividere una così misera portata, ordina di scoperchiare e, alla vista di tutti, appaiono polli ripieni, un coniglio alato a somiglianza di un Pegaso, pesci che sembrano nuotare in un lago di gelatina, mentre da statuette argentee di Satiri, fuoriesce un pregiato garum.
A proposito del garum, di fatto onnipresente sulle tavole romane, è opportuno ricordare che di questa celebre salsa esistevano versioni economiche, destinate al consumo quotidiano, e produzioni di grande valore, il cui costo superava i mille sesterzi ogni sei litri (Plinio, Nat. Hist. 31, 43 e 94). Generalmente il garum era ottenuto alternando strati di pesce, sardine, acciughe o, nei casi migliori, sgombri, a strati di erbe aromatiche (alloro in particolare) e sale grosso. Ne risultava un composto che, una volta fermentato, si conservava a lungo. Recenti tentativi di riprodurre il garum seguendo alla lettera le ricette antiche hanno inoltre dimostrato che la salsa ottenuta, grazie al processo di fabbricazione e all'altissima percentuale di sale, è assolutamente sterile, a prescindere dall'igiene degli strumenti utilizzati e dagli ingredienti. Grazie a questo "succo" di pesce a lunghissima conservazione fu possibile, anche per popolazioni che abitavano a grande distanza dal mare, assumere le importanti sostanze chimiche contenute nel pesce marino, come lo iodio, contribuendo così a ridurre notevolmente l'incidenza di malattie come il gozzo o il rachitismo.
Ma nelle cene importanti la faceva da padrone il pesce fresco. Apprezzatissime erano le triglie, pagate letteralmente a peso d'oro. Domiziano, imperatore dall'81 al 96 a.C., ne pagò una di due chili 6000 sesterzi, mentre Tiberio, famoso per ripudiare ogni piacere della tavola, fece rivendere una triglia enorme che gli era stata regalata, ricavandone oltre 5000 sesterzi. Celebre, inoltre, è la passione dei romani per le murene, che andava al di là del semplice apprezzamento gastronomico. Questi pesci, dotati di notevole intelligenza, erano allevati in speciali peschiere, dove erano abituati a radunarsi al suono del flauto e a mangiare dalle mani del padrone. Ortensio, celebre avvocato contemporaneo di Cicerone (I sec. a.C.), mise addirittura il lutto quando morì una delle sue murene preferite, mentre Antonia, nipote di Tiberio, non esitò a far ornare con orecchini d'oro la murena che più amava. Quanto allo storione, per la bontà delle carni e per la sua rarità, era considerato un pesce riservato alla tavola imperiale (Marziale, Epigrammi 13, 91), mentre l'imperatore Settimio Severo (193-211 d.C.) lo faceva servire su enormi vassoi d'argento preceduto e seguito da servi inghirlandati, quasi si trattasse della processione di una divinità (Macrobio, Saturnalia 3, 16, 6-87).
Per chiudere una cena degna di questo nome non poteva mangiare il dessert o "seconda mensa", come lo chiamavano i latini. Il dolce consisteva essenzialmente in frutta: mele, pere, fichi, uva, datteri... Esistevano anche dolci veri e propri realizzati con pasta e miele, il dolcificante per eccellenza nel mondo romano. Ancora una volta è nell'animata cena di Trimalcione che troviamo l'esempio più esasperato di quest'uso: al termine del pasto, il padrone di casa fece servire un trionfo di pasta dolce scolpito a raffigurare Priapo, il dio protettore dei giardini e degli orti, che stringeva nel suo grembo ogni genere di frutta. Fra le ricette di dolci quotidiani era molto diffusa quella di friggere fette di pane imbevute di latte e cosparse di miele (Apicio, De re coquinaria 7, 14, 3), un sistema rapido e pratico per riutilizzare il pane raffermo.
Come abbiamo visto dai numerosi esempi citati, era la cena il pasto forte della giornata, anche per le famiglie ricche. La colazione, infatti, si consumava velocemente e da soli nella propria camera, mangiando, senza nemmeno lavarsi le mani come note Seneca (Epistole 83, 6), un po' di pane, della frutta o del formaggio. Il pransus, a mezzogiorno, era del tutto secondario e si saltava direttamente. Un persona impegnata come l'imperatore Augusto lamenta, nelle lettere riportate dallo storico Svetonio (Vita dei Cesari 76), che "neppure un ebreo rispetta i sabati come ho fatto io oggi, che soltanto al bagno, dopo la prima ora di notte (verso le sei o sette del pomeriggio) sono riuscito a mangiare due bocconi".
E', quindi, logico che il momento della cena fosse atteso con impazienza e spesso anticipato a orari ben diversi dai nostri. Mediamente ci si metteva a tavola nel pomeriggio e si mangiava sino al tramonto del sole. A quell'ora, con poca luce in casa e le strade al buio, le compagnie si scioglievano rapidamente. La cena era comunque qualcosa che andava al di là del semplice consumo dei pasti e queste riunioni pomeridiane costituivano il fulcro della vita sociale e culturale dell'epoca. Non c'era niente di più esecrando, nell'opinione comune, dell'essere costretti a consumare la cena da soli a casa, dell'essere condannati, cioè, allo "squallido domicenio", come lo definisce Marziale (Epigr. 5, 78, 1), triste sinonimo di ostracismo dalla società del tempo.
FONTI:
- Archeologia viva" n°102 (nov-dic 2003), GIUNTI, Firenze