C’era una volta un signore che aveva un campo molto fertile; ogni sorta di pianta vi attecchiva e produceva frutti in grande quantità e lui andava dicendo ai suoi due figli:
“Questo campo è tutta la mia ricchezza. Vedete voi stessi con i vostri occhi quanto è esteso e quanti frutti dà. Ma dovete sapere che c'è una cosa ancor più preziosa nascosta nella sua terra, una cosa che oggi non appare alla luce del sole. Un giorno, quando io non ci sarò più, la troverete e nulla vi mancherà”.
I figli facevano cenno di aver compreso le parole che il padre ripeteva loro in continuazione e non chiedevano nulla a proposito di quel tesoro misterioso.
Quando il padre morì e anche la madre lo seguì nella tomba, i figli cominciarono la ricerca di quel bene che era stato lasciato loro sepolto nel campo.
Impugnarono la zappa e la vanga, assoldarono altri uomini perché li aiutassero e si apprestarono a scavare lungo tutto il perimetro del campo e poi anche nel mezzo: fecero buchi e fosse per ogni dove, tanto che dopo alcuni giorni di lavoro il campo era completamente rovinato e i suoi frutti mandati all'aria.
Cercavano oro o pietre preziose, ma nulla del genere venne a galla.
Pareva inutile continuare a scavare, così gli uomini assoldati pretesero la paga e se ne andarono. “Sono stanco. Me ne vado anch’io”, disse uno dei figli. “Nostro padre ci ha raccontato una bugia. Non c’è niente di prezioso in questo campo”.Afferrò la sua vanga e si allontanò a grandi passi.
L’altro figlio non disse niente e non si mosse. Si appoggiò al manico della zappa e osservò il campo: le piante erano state scalzate, le zolle rivoltate, gli alberi ancora teneri divelti dal suolo, i frutti acerbi giacevano sul terreno e le foglie verdi erano sommerse dalla terra smossa. Della coltivazione passata non c’era più traccia.
“Non voglio credere che nostro padre ci abbia fatto un simile scherzo. Rovinare tutto il raccolto per niente!”, disse e restò lì immobile dove si trovava.
Per ore scrutò ogni metro del suo campo. Quando fu stanco di stare in piedi si sedette su un sasso e fece scorrere lo sguardo più radente al terreno.
Era ormai l’imbrunire quando scorse lontana in un angolo una pianticella: l’unica rimasta in vita dopo tutto il frenetico scavare degli uomini.
Si rizzò di scatto e vide che le foglie brillavano come fossero dorate e corse a vedere.
“Ecco!”, urlò. “Questo è il tesoro nascosto!”.
La pianta ebbe un tremito. Come se la brezza della sera, colpendo le sue foglie allungate sullo stelo sottile, la facesse chinare in un cenno di saluto verso il padrone di quella terra; un frutto tra le foglie faceva capolino e proiettava in alto la sua sagoma, quasi volesse omaggiare il sole.
L’uomo si buttò in ginocchio: accarezzò piano una foglia che ondeggiava nell’aria e fu certo di aver trovato il bene prezioso lasciatogli dal padre.
Un’umile pianticella aveva resistito ai colpi delle vanghe, colpi dettati dal furioso desiderio di trovare una facile ricchezza che non comportasse il sudore e la fatica.
“Questa pianta”, disse il figlio saggio, “bagnata e trapiantata darà frutti in abbondanza e porterà ricchezza”.
E così fu: la pianticella di mais, curata con attenzioni pazienti, crebbe e si moltiplicò e produsse magnifiche pannocchie con chicchi biondi e grandi come pietre preziose, e divenne l’oro degli Inca, gli abitanti delle Ande, più pregiato ancora del metallo nascosto dai “gentili” nel ventre della montagna.